giovedì 2 settembre 2010
















a volte ritornano....

Alighiero Boetti (Torino, 16 dicembre 1940 – Roma, 24 aprile 1994) è stato uno dei maggiori artisti italiani del secondo dopoguerra. Accanto ad altri importanti nomi come: Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio, ha fatto parte, negli anni Sessanta, del gruppo Arte Povera, dal quale però si è distaccato precocemente.

Le sue opere più celebri sono arazzi di diverso formato in cui sono inserite, suddivise in griglie, frasi e motti inventati dall'artista (per es. Il progressivo svanire della consuetudine, Dall'oggi al domani, Creare e ricreare, Non parto non resto, ecc).

La sua attitudine all'arte ha influenzato artisti di differenti generazioni, da Francesco Clemente a Maurizio Cattelan. All'estero l'eredità del suo lavoro ha lasciato segni profondi nelle opere del messicano Gabriel Orozco e nelle riletture della recente storia dell'arte dell'inglese Jonathan Monk, il quale sembra provare per Boetti un'autentica ammirazione.

Boetti propone a sé stesso dei sistemi nei quali agire, spesso coinvolgendo altre persone. Oppure sono la geografia, la matematica, la geometria, i servizi postali, a fornire la piattaforma delle proprie scelte. Il suo lavoro mette in discussione il ruolo tradizionale dell'artista, interrogando i concetti di serialità, ripetitività e paternità dell'opera d'arte.

Dopo l'opera Gemelli il filo comune che lega molti suoi lavori è sottendere nel processo creativo un dualismo di intenti. Questo avviene specialmente dopo la sperimentazione con i materiali poveri quando Boetti si trasferisce nella capitale e decide di ripartire veramente da qualcosa di semplice, una matita e un foglio di carta quadrettato.

I meccanismi che inventerà per i suoi lavori sono strutture di pensiero applicabili alle cose senza potersi esaurire. Una volta reso chiaro il principio che li genera si staccano da schemi soggettivi e permettono la libertà di autogenerarsi come le cose della natura.

Alighiero Boetti ha visto la pittura come un "tradimento" verso gli ideali (artistici e politici) esplosi nel Sessantotto: dipingere rappresenta una sorta di distacco dal mondo reale da guardare con disprezzo, per chi - come lui - si sente direttamente coinvolto dal presente e dalla cronaca.[1]

Il mercato del collezionismo d'Arte Contemporanea lo ha esaltato nell'ultimo decennio, ponendo la totalità delle sue opere anche al definitivo rango di investimento finanziario. In questo senso quotazioni in continua crescita hanno interessato in sedi d'aste internazionali l'intera gamma della sua produzione artistica.


Le opere realizzate dall'artista torinese, per maggiore chiarezza ai miei visitatori del Blog, possono essere suddivise in quattro periodi:

1964 - 1969 dai lavori a china alla prima stagione dell'arte povera;

1970 - 1979 dai lavori postali a quelli basati su schemi geometrici e matematici, ai primi arazzi e Mappe del mondo;

1980 - 1989 dalle composizioni su carta ai grandi arazzi del ciclo "Tutto";

1990 - 1994 dai Fregi per la Biennale di Venezia ai grandi tappeti kilim, alla scultura autoritratto "Mi fuma il cervello".


ALIGHIERO e BOETTI Opere 1980-1989
(periodo da me preferito)

Negli anni '80 si intensifica la produzione dei lavori su carta, in cui Boetti crea un microcosmo di immagini e iscrizioni. Molte di queste carte sono una sorta di diario sul quale l'artista appunta date, pensieri, riflessioni. Le frasi sono sempre scritte con la mano sinistra in quanto per l'artista "scrivere con la sinistra è disegnare".
Spesso le carte presentano riferimenti a immagini di opere precedenti, con collage di elementi fotografici o serigrafici.

L'iconografia autoreferenziale di "Due mani e una matita" ritorna come base serigrafica in diverse opere, tra cui quelle della serie "Tra sé e sé".
In "Afghanistan" l'artista pone al centro della composizione - tra sé e sé - una forma in inchiostro nero contenente le sagome dello stato dell'Afghanistan. Questo è un omaggio che Boetti fa a questo paese, che aveva eletto a suo paese adottivo e nel quale aveva soggiornato a più riprese a partire dal 1971, e che in seguito all'occupazione da parte delle armate sovietiche nel 1980 non avrebbe più potuto visitare.

Come a contrastare questo sentimento di tristezza, Boetti dà vita ad un nuovo ciclo di opere coloratissime, "La natura, una faccenda ottusa". Sono tecniche miste in cui è spesso predominante l'uso del collage di piccole carte veline dipinte e ritagliate con la forma di animali: rane, tartarughe, scimmie, felini, pesci.

Prosegue parallelamente la realizzazione delle opere a biro su carta demandata agli assistenti, mentre rallenta la produzione degli arazzi e delle mappe, che fino al 1983 saranno ancora ricamati a Kabul da poche donne. Costantemente prosegue il lavoro di aggiornamento delle bandiere delle mappe conseguentemente ai cambiamenti della situazione geo-politica.
Dal 1984-85 i ricami verranno ripresi dalle donne afghane rifugiatesi a Peshawar in Pakistan.

Di questi anni sono le "Copertine" che ripercorrono mese per mese le prime pagine delle maggiori testate internazionali relative all'anno in corso.

Nella seconda metà degli anni '80 ha un forte impulso il lavoro dedicato agli arazzi di piccola e grande dimensione.
Alle lettere che compongono le frasi in lingua italiana disposte in quadrato si aggiungono alcuni testi in lingua inglese, francese, tedesca, giapponese, in particolare riferiti ai numeri e alle tavole pitagoriche.

Aumenta la complessità della composizione degli arazzi di grande formato, dove la struttura delle griglie e lo scorrimento dei testi assumono numerose varianti, sempre basate sullo studio dei quadrati e dei numeri. E' necessaria quindi una maggiore attenzione per riuscire a leggerli.
Su alcuni questi ricami sono inserite iscrizioni in lingua afghana (farsi), con brani di poesie o frasi di ringraziamento rivolete dalle ricamatrici all'artista - datore di lavoro (da loro chiamato "Ali Ghiero").

Intorno al 1988 inizia un nuovo ciclo di grandi arazzi ricamati, denominati "Tutto". Queste opere fanno riferimento ad un gruppo di opere precedenti intitolate "Pack".
I "Tutto" vengono realizzati da Boetti con l'aiuto dei suoi assistenti con l'obiettivo di occupare l'intera superficie della tela da ricamare con elementi figurali di ogni tipo fittamente accostati.

Anche qui Boetti cerca di limitare il suo intervento manuale diretto, come anche per la scelta dei colori, lasciata - salvo alcune regole e criteri decisi alla base - alle ricamatrici.
L'artista dichiara al "Corriere della Sera" del 19 gennaio 1992:"Per non creare gerarchie tra i colori li uso tutti. Il mio problema infatti è di non fare scelte secondo il mio gusto ma d'inventare sistemi che poi scelgono per me".

martedì 2 marzo 2010

Capolavori ............di Edward Hopper





Cari amici del Blog vi segnalo una deliziosa mostra del popolare artista americano contempornaeo Edward Hopper (1882-1967) al Museo Fondazione Roma (Museo del Corso)...davvero da non perdere ..........
Ma chi era Hopper?

Nato il 22 luglio del 1882 a Nyack, piccola cittadina sul fiume Hudson, da una colta famiglia borghese americana, Edward Hopper entra nel 1900 alla New York School of Art, un prestigioso istituto che ha sfornato nel tempo alcuni dei nomi più importanti della scena artistica americana.
A parte il clima stimolante e le opportunità di conoscenza e dibattito che l'artista ha occasione di intraprendere con i coetanei in quella scuola, la vera influenza sulla sua personalità artistica viene esercitata dagli insegnanti, che lo spingono a copiare le opere esposte nei musei e ad approfondirne gli autori.
Inoltre, fondamentale rimane il senso del gusto che le "autorità" culturali della scuola lo spingono ad introiettare, ossia il gusto per una pittura ordinata, dal tratto nitido e lineare. Questa impostazione, che ad un primo esame potrebbe apparire accademica, in realtà è coniugata (nell'intento degli insegnanti e poi fatta propria da Hopper), da un rapporto critico con le regole, che spinge e invoglia il giovane artista a trovare una propria strada personale in base al filtro della propria sensibilità.
Dopo il conseguimento del diploma e il primo impiego da illustratore pubblicitario alla C. Phillips & Company, Edward Hopper, nel 1906, compirà il suo primo viaggio in Europa, visitando Parigi, dove sperimenterà un linguaggio formale vicino a quello degli impressionisti, e proseguendo poi, nel 1907, per Londra, Berlino e Bruxelles. Tornato a New York, parteciperà a un'altra mostra di controtendenza organizzata da Henri presso l'Harmonie Club nel 1908 (un mese dopo quella del Gruppo degli Otto).
In questo periodo la maturazione artistica di Hopper avviene con estrema gradualità. Dopo aver assimilato la lezione dei più grandi maestri, fra tentativi ed esperimenti arriva a maturare un suo linguaggio originale, che trova la sua piena fioritura ed espressione solo nel 1909, quando deciderà di tornare a Parigi per sei mesi, dipingendo a Saint-Gemain e a Fontainebleau.
Fin dagli esordi della sua carriera artistica, Hopper è interessato alla composizione figurativa urbana e architettonica in cui inserire un unico personaggio, solo e distaccato psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. Inoltre il suo genio artistico gli ha permesso di costruire una tavolozza coloristica del tutto originale e riconoscibile, un uso della luce così originale come non succedeva dai tempi di Caravaggio. Lo studio degli impressionisti poi, e in particolare di Degas, (osservato e meditato durante il suo viaggio a Parigi nel 1910), gli infonde il gusto per la descrizione degli interni ed un uso dell'inquadratura di tipo fotografico.
L'estrema originalità di Hopper è facilmente verificabile se si pensa che il clima culturale europeo dell'epoca vedeva agitarsi sulla scena diverse tendenze certamente avanzate e rivoluzionare ma anche, talvolta, difettanti di un certo intellettualismo o di un forzato avanguardismo. Il ventaglio delle opzioni che un artista poteva abbracciare ai primi del novecento andavano dal cubismo al futurismo, dal fauvismo all'astrattismo. Hopper invece, predilige rivolgere il proprio sguardo al passato appena trascorso, recuperando la lezione di importanti maestri quali Manet o Pissarro, Sisley o Courbet, riletti però in chiave metropolitana e facendo emergere, nelle sue tematiche, le contraddizioni della vita urbana.
Nel 1913 partecipa all'Armory Show International Exhibition of Modern Art, inaugurata il 17 febbraio nell'armeria del 69° reggimento di fanteria di New York; mentre, nel 1918 sarà tra i primi membri del Whitney Studio Club, il più vitale centro per gli artisti indipendenti. Tra il 1915 e il 1923 Hopper abbandona temporaneamente la pittura per dedicarsi all'incisione, eseguendo puntesecche e acquaforti, grazie alle quali otterrà numerosi premi e riconoscimenti, anche dalla National Academy. Il successo ottenuto con una mostra di acquerelli (1923) e con un'altra di quadri (1924) contribuirà alla sua definizione di caposcuola dei realisti che dipingevano la "scena americana".
Nel 1933 il Museum of Modern Art di New York gli dedica la prima retrospettiva, e il Whitney Museum la seconda, nel 1950. In quei primi anni Cinquanta Hopper parteciperà attivamente alla rivista "Reality", fronte comune degli artisti legati alla figurazione e al realismo, che si contrapponevano all'Informale e alle nuove correnti astratte, venendo identificati erroneamente (nel clima della "guerra fredda" e della "caccia alle streghe" aperta da McCarthy) come simpatizzanti socialisti.
Al di là delle numerose e possibili interpretazioni della sua pittura, Hopper sarebbe rimasto fedele alla propria visione interiore fino alla sua morte, avvenuta il 15 maggio del 1967 nello studio newyorchese.


venerdì 8 gennaio 2010

Infinity e voglio vivere per sempre ....opere di Yayoi Kusama


Yayoi Kusama....ritorno in oriente.


Come ogni viaggio o diario di viaggio che si rispetti è opportuno che i miei visitatori tornino ad apprezare l'arte di una protagonista della scena mondiale, orientale, in mostra a Milano fino a l 14 febbraio 2010: Yayoi Kusama.
I pois colorati sono la sua ossessione artistica e il suo segno distintivo. Pare che Yayoi Kusama abbia iniziato a tracciarli ad appena dieci anni: pallini, grandi e piccoli, ma sempre rigorosamente pallini. Oggi che ha raggiunto gli ottanta (è nata vicino a Nagano nel 1929) è considerata una degli artisti giapponesi più influenti nel panorama contemporaneo, ha collezionato una serie di premi prestigiosi e perfino un documentario "Yayoi Kusama, I adore myself" che è un tributo a 360 grandi. Lei, habituée delle parrucche pop - caschetti colorati, soprattutto - e del look estroverso – che, ovviamente, non prescinde dagli amati pois - si reputa più che altro una "scultrice d'avanguardia, pittrice e scrittrice", come recita il suo aggiornatissimo sito internet http://www.yayoi-kusama.jp/.
L'omaggio all'artista giapponese arriva da Milano: (dal 28 novembre al 14 febbraio 2010 ) le sue opere sono state e sono protagoniste di una grande retrospettiva al Pac.
La mostra, "Yayoi Kusama. I want to live forever", curata dal direttore del National Museum of Art di Osaka Akira Tatehata, è una finestra aperta sulla sua produzione, estremamente variegata. L'esposizione, innanzitutto, prende il nome da uno straordinario dipinto in acrilico su cinque pannelli che l'artista ha prodotto nel 2008 e che si intitola "Voglio vivere per sempre". I dipinti Infinity – tele in cui i pois sono bolle o palle di fuoco uniformemente distribuite in un universo monocromatico dai toni psichedelici – attraversano trasversalmente la carriera dell'artista nipponica: dagli anni Cinquanta, quando Kusama si trasferì a New York, ad oggi. Opere come "Dots obsession(tosia)" - pois neri su sfondo giallo, sembrano anti pianeti immobili nell'universo - e "Universe Fireballs" infatti sono state realizzate negli ultimi due anni.
Pezzo forte dell'esposizione l'installazione-scultura "Narcissus Garden" che, presentata alla Biennale di Venezia nel 1966, è arrivata nel capoluogo lombardo per la prima volta. Un ambiente interattivo formato da millecinquecento sfere metalliche (creato con l'aiuto di Lucio Fontana) che simboleggia sia l'estro creativo di Kusama sia la sua volontà di sconvolgere i canoni tradizionali dell'arte e del sistema che intorno ad essa ruota. "Narcissus Garden" fu presentato sul prato del Padiglione Italiano da una minuta Yayoi in kimono. Che, in segno di provocazione, si mise a vendere le sfere a 1200 lire l'una in un'epoca nella quale il legame tra arte e valore veniva passato sotto silenzio e apertamente snobbato.
Tante le sculture eccentriche – "Flowers that bloom at midnight", fiori in plastica, fibra di vetro e metallo che, con le loro tinte shock e i pois, ammiccano allo stile manga in formato gigante (sono alti 1,5 e 5 mt) – e le installazioni visionarie, parte integrante della creatività della Kusama. Che sembra voler indagare (o esorcizzare) attraverso forme diverse le dimensioni inesplorabili della realtà: il vuoto, lo spazio, i misteri dell'universo fisico e metafisico. Aprire la porta bianca di "Aftermath of obliteration of Eternity" significa, ad esempio, immergersi in un universo buio, costellato da piccole luci appese a fili dal soffitto. L'atmosfera ricreata è davvero magica: sembra di essere nel cuore di una galassia.


lunedì 28 dicembre 2009

Calder...Movimento e Leggerezza


Alexander Calder nacque a Lawnton, un sobborgo di Philadelfia in Pennsylvania, nel 1898, da una famiglia di artisti. Fu il nonno paterno, scultore, a immigrare dalla Scozia negli Stati Uniti. Anche i genitori di Alexander erano artisti, pittrice la madre, scultore il padre, entrambi sensibili alla cultura dei nativi d'America.
Laureatosi in ingegneria nel 1919, il giovane Calder esercitò i più diversi mestieri: contabile, rappresentante, assicuratore, mozzo, poi, un insieme di circostanze tra le quali una folgorante visione naturale e una paterna sollecitazione, lo indussero a dedicarsi all'arte. Nel 1923 si iscrisse, prima ai corsi serali di Clinton Balmer, poi all'Art Students League di New York, dove, tra gli altri, ebbe come insegnante John Sloan alla cui influenza debbono riferirsi i suoi primi dipinti ad olio con scene metropolitane. Seguì anche i corsi di Boardman Robinson che lo iniziò al disegno a tratto lineare, divenuto in seguito elemento stilistico fondamentale del suo lavoro. Un tratto sottile e sicuro compare nei primi disegni umoristici pubblicati nel giornale satirico newyorkese, "The National Police Gazette" tra il 1923 e il 1925, e ricompare materializzato nelle sculture in filo di ferro, il gruppo di opere che segnarono il suo esordio.
Al 1926 risale il primo viaggio di Calder a Parigi, dover l'artista soggiornò a lungo. Lì perfezionò piccoli oggetti zoomorfi o antropomorfi, realizzati con materiali diversi, dagli objets trouvés al filo di ferro, legno, stoffa, barattoli di latta; inoltre, popolò il suo celebre "Cirque" con acrobati, ballerini, diversi generi di animali, clowns che l'artista animava offrendo ai suoi amici dei veri e propri spettacoli "ricchi di humor e di infantile allegrezza". In quello stesso periodo mise a punto anche un genere di ritratto ottenuto con il filo di ferro, che continuerà a realizzare negli anni.
Alla Weyhe Gallery di New York nel 1928 tenne la sua prima mostra personale, interamente dedicata alle opere in filo di ferro. E' lo stesso Calder che dichiarò, in diverse occasioni, quanto sia stata per lui importante la visita allo studio di Piet Mondrian, dove si recò nel 1930, ricambiando la visita che Mondrian gli aveva fatto in occasione di una delle rappresentazioni del "Cirque". "Uno choc necessario" definì quell'incontro, in seguito al quale abbracciò l'astrattismo, senza peraltro rinunciare mai a un serrato e divertito dialogo con le forme della natura.
Nella Parigi cosmopolita e capitale delle arti, a cavallo tra gli anni venti e trenta, dove Calder trascorreva lunghi soggiorni alternandoli a quelli newyorkesi, prese corpo il suo lavoro a contatto con i principali protagonisti della scena artistica internazionale. Con Juan Miró allacciò una solida e intramontata amicizia, Jules Pascin presentò la sua mostra personale nella Galerie Billiet di Parigi nel 1929, nel 1931 Fernand Léger scrisse un'introduzione per la sua mostra personale alla Galerie Percier di Parigi, quella in cui espose le prime sculture astratte dipinte con l'esclusivo impiego dei colori primari, Marcel Duchamp propose il titolo di "Mobile" per le sue prime sculture cinetiche esposte nel 1932 alla Galerie Vignon di Parigi, Hans Arp controbatté appellando "Stabile" le sue sculture astratte non in movimento.
Nel 1936 Calder realizzò la sua prima collaborazione teatrale, disegnando le scene per il Socrate di Satie prodotto dal Wadsworth Atheneum di Hartford. Nel 1937, presentato da Mirò, partecipò alla realizzazione del celebre padiglione spagnolo all'Esposizione Universale di Parigi, realizzando l'ingegnosa "Fontana del mercurio". Nel 1931 l'artista aveva aderito al movimento Abstraction-Création e fu in quell'anno, particolarmente importante per la sua vita - è lo stesso in cui sposò Louisa James - che giunse a ideare le sculture in movimento, alcune azionate da macchinari (che presto smise di utilizzare), altre mosse da fattori contingenti o atmosferici.
Nelle opere di Calder il movimento, assunto come emblema dell'epoca contemporanea dai Futuristi in poi, ha la stessa qualità della vita e sprigiona un sottile senso dell'umorismo. La sua grande invenzione, maturata attraverso l'esperienza delle figure animate del "Cirque", sta nell'organizzazione di forze contrastanti che mutano le loro relazioni nello spazio, modificando continuamente la forma della scultura.















Questa è l'interpretazione di James Johnson Sweeney che presentò la prima mostra personale di Calder nella galleria di Pierre Matisse a New York nel 1934 e che nel 1943 curò la prima esaustiva monografia dedicata all'artista, pubblicata in occasione della mostra retrospettiva al Musueum of Modern Art di New York. Nel 1946 fu Jean-Paul Sartre a presentare la mostra di "Mobile" nella galleria Louis Carré a Parigi, tracciando un sottile legame tra quelle sculture e l'Esistenzialismo: "Un Mobile non significa nulla, cattura i movimenti della vita e li mette in forma. I Mobiles non significano niente altro che se stessi (…) sono degli assoluti (…) Sono invenzioni liriche, combinazioni tecniche, quasi matematiche e allo stesso tempo il simbolo sensibile della Natura, di questa grande Natura incolta che sperpera il suo polline (…) che non si sa se sia la cieca catena di cose ed effetti o non il timido, incessante disordinato sviluppo di un'idea".
Nel 1933 Calder aveva acquistato la tenuta di Roxbury nel Connecticut. Lì apparvero le sue prime sculture di grandi dimensioni, frutto di un rinnovato incontro con l'ambiente americano e i prototipi degli "Stabile" monumentali. Nel 1953 l'artista acquistò una casa a Saché, nell'Indre-et-Loire, in Francia, dove installò un altro grande studio, trascorrendo da allora sempre più tempo in Europa. Innumerevoli sono i campi nei quali l'artista ha applicato il suo estro, celebri i suoi libri illustrati, i suoi gioielli, i suoi disegni per arazzi e tappeti, numerose le sue collaborazioni teatrali sino allo spettacolo da lui interamente ideato, Work in Progress, andato in scena al Teatro dell'Opera di Roma nel 1968. Oltre ai "Mobile" e agli "Stabile" ha realizzato altri consistenti gruppi di lavori: le "Costruzioni gotiche" degli anni trenta, le "Costellazioni" e le "Torri" del decennio successivo, cicli di sculture in legno e in bronzo, ha costantemente dipinto e disegnato, sempre fedele alla scelta dei colori primari. Numerosi furono i riconoscimenti che Calder ricevette a partire dal Gran Premio della Scultura alla Biennale di Venezia del 1952. Molte le committenze pubbliche, tra le quali il soffitto dell'aula magna dell'Università di Caracas e un numero veramente elevato di "Mobile" e di "Stabile", tra gli altri "125" il mobile del 1957 installato all'aeroporto John F. Kennedy di New York, "La Spirale" del 1958 per il Palazzo dell'UNESCO a Parigi, "Man" del 1967 a Montreal, "El Sol Rojo" del 1968 a Città del Messico, "Flamingo" del 1974 a Chicago. Lunga la lista delle mostre retrospettive, tra le quali ricordiamo quelle del Guggenheim Musuem di New York nel 1964, della Fondation Maeght di Saint-Paul-de-Vence nel 1969, del Museum of Contemporary Art di Chicago nel 1974, del Whitney Museum of American Art di New York nel 1977, del Palazzo a Vela di Torino nel 1983, della National Gallery di Washington nel 1998. Calder morì a New York nel 1976.
Marcel Duchamp disse di Calder: "Fra le "innovazioni" manifestatesi nel campo artistico dopo la prima guerra mondiale, il modo di trattare la scultura da parte di Calder era così lontano dalle formule tradizionali che dovette inventare un nome nuovo per le sue forme in movimento. Le chiamò mobiles. Esse affrontano il problema della gravità, appena disturbata da gentili movimenti, in maniera da dare la sensazione di "procurare piaceri che sono loro peculiari, ben diversi dal piacere di graffiare", per citare il "Filebo" di Platone. Una brezza leggera, un motore elettrico, o ambedue sotto forma di un ventaglio elettrico, mettono in moto pesi, contrappesi, leve che disegnano a mezz'aria i loro imprevedibili arabeschi e introducono un elemento di durevole sorpresa. La sinfonia è completa quando si uniscono colore e suono e invitano tutti i nostri sensi a seguire la non scritta partitura. Pura joie de vivre. L'arte di Calder è la sublimazione di un albero nel vento". Da Alexander Calder. Sculptor, Painter, Illustrator, catalogo della Société Anonyme per la galleria d'Arte della Yale University, 1950, ora in Michel Sanouillet (a cura di), Duchamp du signe, Flammarion Parigi 1975.
Fernard Léger, invece, disse di Calder: "Impossibile trovare un contrasto più grande di quello che c'è fra Calder, un uomo che pesa novanta chili; e le sue creazioni mobili, delicate, trasparenti. Simile a un tronco d'albero in moto, stimola tante discussioni, si muove come il vento: non è nato per passare inosservato! Sorridente e curioso fluttua nell'aria come se facesse parte della natura stessa. Lasciato a sé in un appartamento è un vero pericolo per ogni oggetto fragile. Il suo posto è piuttosto all'aperto, all'aria, al vento, al sole". Da Calder, "Derriére le miroir", n. 31, Paris Fondation Maeght luglio 1950.
Il grande fotografo Ugo Mulas sostenne, sull'opera dell'artista: "Mi piaceva il fatto che si dedicava a tutto con uguale intensità, che riuscisse a costruire dei forchettoni o dei mestoli per la cucina non meno belli delle sue sculture e, soprattutto, quei buffi lampadari costruiti sovrapponendo a cerchio due serie di forme da budini, e i supporti in filo d'ottone - che sono al tempo stesso sostegno molleggiato, protezione e manico - fatti per certe tazzine di porcellana, forse perché particolarmente care a Louise o forse semplicemente perché avevano perso il loro manico". Da L'amicizia, in Ugo Mulas, La Fotografia, a cura di Paolo Fossati, Einaudi, Torino 1973.
Infine lo storico e critico d'arte Giulio Carlo Argan sottolineò dell'opera di Calder: "È sicuro che tra cosa e spazio una pacifica e animata coesistenza sia comunque possibile: tutto sta o intendersi, a trovare la dialettica della relazione. Poiché il suo è, in fondo, un interesse morale, la legge della sua scultura è ancora, benché sembri strano, la mimesi. Per insinuarsi nella realtà vivente giuoca d'astuzia, si traveste: simula l'arbusto e la farfalla, il dondolarsi e il frusciare delle foglie sui rami. Inventa una natura artificiale perché gli uomini "artificiali" s'illudano di vivere in un ambiente naturale e conforme. Alla sua facile saggezza non manca una nota d'arguzia: a un mondo preso dalla frenesia del darsi da fare fa pacatamente l'elogio del moto che non serve, non ha direzione né scopo, è soltanto divertimento e giuoco". Da Calder, nel catalogo della mostra "Calder", galleria dell'Obelisco, Roma dal 14 marzo 1956.
Attulamente in mostra a Roma al Il Palazzo delle Esposizioni, a 25 anni di distanza dalla retrospettiva di Torino, un'esaustiva esposizione dedicata all'artista americano.
Concepito con uno sguardo sull'intera carriera artistica di Calder, il progetto, realizzato insieme con MondoMostre, non ha precedenti per forma e dimensioni. Piuttosto che presentare il corpus delle opere secondo il consueto ordinamento cronologico, la rassegna romana sarà infatti articolata in una serie di "mini esposizioni", ognuna delle quali incentrata su un aspetto della variegata opera dell'artista. La Calder Foundation metterà a disposizione l'intera collezione, composta da più di mille opere (dai primi dipinti a olio, ai gioielli, alle sculture di grandi dimensioni) tra le quali verrano selezionate le più significative e che saranno integrate con importanti prestiti dai più grandi musei del mondo, quali il Guggenheim, il Moma, il Whitney, la National Gallery di Washington, illustreranno un'esperienza creativa che ha rivoluzionato per sempre al storia dell'arte, anticipando la performance art di oltre quarant'anni e dando vita, con la prima scultura cinetica, a un genere completamente nuovo. Oltre agli hanging mobile (sculture cinetiche sospese) e agli standing mobile (sculture cinetiche a terra), la mostra ospiterà stabile (opere non cinetiche), sculture monumentali, opere su carta e di gioielleria.
Bibliografia essenziale:

- Calder, Alexander, An Autobiography With Pictures, Pantheon Books, 1966;
- Guerrero, Pedro E, Calder at Home. The Joyous Environment of Alexander Calder, Stewart, Tabori & Chang, New York, 1998;
- Prather, Marla, Alexander Calder 1898 - 1976, National Gallery of Art, Washington D.C., 1998;
- Rosenthal, Mark, and Alexander S. C. Rower, The Surreal Calder, The Menil Collection, Houston, 2005;
- Rower, Alexander S. C, Calder Sculpture, Universe Publishing, 1998;