lunedì 28 dicembre 2009

Calder...Movimento e Leggerezza


Alexander Calder nacque a Lawnton, un sobborgo di Philadelfia in Pennsylvania, nel 1898, da una famiglia di artisti. Fu il nonno paterno, scultore, a immigrare dalla Scozia negli Stati Uniti. Anche i genitori di Alexander erano artisti, pittrice la madre, scultore il padre, entrambi sensibili alla cultura dei nativi d'America.
Laureatosi in ingegneria nel 1919, il giovane Calder esercitò i più diversi mestieri: contabile, rappresentante, assicuratore, mozzo, poi, un insieme di circostanze tra le quali una folgorante visione naturale e una paterna sollecitazione, lo indussero a dedicarsi all'arte. Nel 1923 si iscrisse, prima ai corsi serali di Clinton Balmer, poi all'Art Students League di New York, dove, tra gli altri, ebbe come insegnante John Sloan alla cui influenza debbono riferirsi i suoi primi dipinti ad olio con scene metropolitane. Seguì anche i corsi di Boardman Robinson che lo iniziò al disegno a tratto lineare, divenuto in seguito elemento stilistico fondamentale del suo lavoro. Un tratto sottile e sicuro compare nei primi disegni umoristici pubblicati nel giornale satirico newyorkese, "The National Police Gazette" tra il 1923 e il 1925, e ricompare materializzato nelle sculture in filo di ferro, il gruppo di opere che segnarono il suo esordio.
Al 1926 risale il primo viaggio di Calder a Parigi, dover l'artista soggiornò a lungo. Lì perfezionò piccoli oggetti zoomorfi o antropomorfi, realizzati con materiali diversi, dagli objets trouvés al filo di ferro, legno, stoffa, barattoli di latta; inoltre, popolò il suo celebre "Cirque" con acrobati, ballerini, diversi generi di animali, clowns che l'artista animava offrendo ai suoi amici dei veri e propri spettacoli "ricchi di humor e di infantile allegrezza". In quello stesso periodo mise a punto anche un genere di ritratto ottenuto con il filo di ferro, che continuerà a realizzare negli anni.
Alla Weyhe Gallery di New York nel 1928 tenne la sua prima mostra personale, interamente dedicata alle opere in filo di ferro. E' lo stesso Calder che dichiarò, in diverse occasioni, quanto sia stata per lui importante la visita allo studio di Piet Mondrian, dove si recò nel 1930, ricambiando la visita che Mondrian gli aveva fatto in occasione di una delle rappresentazioni del "Cirque". "Uno choc necessario" definì quell'incontro, in seguito al quale abbracciò l'astrattismo, senza peraltro rinunciare mai a un serrato e divertito dialogo con le forme della natura.
Nella Parigi cosmopolita e capitale delle arti, a cavallo tra gli anni venti e trenta, dove Calder trascorreva lunghi soggiorni alternandoli a quelli newyorkesi, prese corpo il suo lavoro a contatto con i principali protagonisti della scena artistica internazionale. Con Juan Miró allacciò una solida e intramontata amicizia, Jules Pascin presentò la sua mostra personale nella Galerie Billiet di Parigi nel 1929, nel 1931 Fernand Léger scrisse un'introduzione per la sua mostra personale alla Galerie Percier di Parigi, quella in cui espose le prime sculture astratte dipinte con l'esclusivo impiego dei colori primari, Marcel Duchamp propose il titolo di "Mobile" per le sue prime sculture cinetiche esposte nel 1932 alla Galerie Vignon di Parigi, Hans Arp controbatté appellando "Stabile" le sue sculture astratte non in movimento.
Nel 1936 Calder realizzò la sua prima collaborazione teatrale, disegnando le scene per il Socrate di Satie prodotto dal Wadsworth Atheneum di Hartford. Nel 1937, presentato da Mirò, partecipò alla realizzazione del celebre padiglione spagnolo all'Esposizione Universale di Parigi, realizzando l'ingegnosa "Fontana del mercurio". Nel 1931 l'artista aveva aderito al movimento Abstraction-Création e fu in quell'anno, particolarmente importante per la sua vita - è lo stesso in cui sposò Louisa James - che giunse a ideare le sculture in movimento, alcune azionate da macchinari (che presto smise di utilizzare), altre mosse da fattori contingenti o atmosferici.
Nelle opere di Calder il movimento, assunto come emblema dell'epoca contemporanea dai Futuristi in poi, ha la stessa qualità della vita e sprigiona un sottile senso dell'umorismo. La sua grande invenzione, maturata attraverso l'esperienza delle figure animate del "Cirque", sta nell'organizzazione di forze contrastanti che mutano le loro relazioni nello spazio, modificando continuamente la forma della scultura.















Questa è l'interpretazione di James Johnson Sweeney che presentò la prima mostra personale di Calder nella galleria di Pierre Matisse a New York nel 1934 e che nel 1943 curò la prima esaustiva monografia dedicata all'artista, pubblicata in occasione della mostra retrospettiva al Musueum of Modern Art di New York. Nel 1946 fu Jean-Paul Sartre a presentare la mostra di "Mobile" nella galleria Louis Carré a Parigi, tracciando un sottile legame tra quelle sculture e l'Esistenzialismo: "Un Mobile non significa nulla, cattura i movimenti della vita e li mette in forma. I Mobiles non significano niente altro che se stessi (…) sono degli assoluti (…) Sono invenzioni liriche, combinazioni tecniche, quasi matematiche e allo stesso tempo il simbolo sensibile della Natura, di questa grande Natura incolta che sperpera il suo polline (…) che non si sa se sia la cieca catena di cose ed effetti o non il timido, incessante disordinato sviluppo di un'idea".
Nel 1933 Calder aveva acquistato la tenuta di Roxbury nel Connecticut. Lì apparvero le sue prime sculture di grandi dimensioni, frutto di un rinnovato incontro con l'ambiente americano e i prototipi degli "Stabile" monumentali. Nel 1953 l'artista acquistò una casa a Saché, nell'Indre-et-Loire, in Francia, dove installò un altro grande studio, trascorrendo da allora sempre più tempo in Europa. Innumerevoli sono i campi nei quali l'artista ha applicato il suo estro, celebri i suoi libri illustrati, i suoi gioielli, i suoi disegni per arazzi e tappeti, numerose le sue collaborazioni teatrali sino allo spettacolo da lui interamente ideato, Work in Progress, andato in scena al Teatro dell'Opera di Roma nel 1968. Oltre ai "Mobile" e agli "Stabile" ha realizzato altri consistenti gruppi di lavori: le "Costruzioni gotiche" degli anni trenta, le "Costellazioni" e le "Torri" del decennio successivo, cicli di sculture in legno e in bronzo, ha costantemente dipinto e disegnato, sempre fedele alla scelta dei colori primari. Numerosi furono i riconoscimenti che Calder ricevette a partire dal Gran Premio della Scultura alla Biennale di Venezia del 1952. Molte le committenze pubbliche, tra le quali il soffitto dell'aula magna dell'Università di Caracas e un numero veramente elevato di "Mobile" e di "Stabile", tra gli altri "125" il mobile del 1957 installato all'aeroporto John F. Kennedy di New York, "La Spirale" del 1958 per il Palazzo dell'UNESCO a Parigi, "Man" del 1967 a Montreal, "El Sol Rojo" del 1968 a Città del Messico, "Flamingo" del 1974 a Chicago. Lunga la lista delle mostre retrospettive, tra le quali ricordiamo quelle del Guggenheim Musuem di New York nel 1964, della Fondation Maeght di Saint-Paul-de-Vence nel 1969, del Museum of Contemporary Art di Chicago nel 1974, del Whitney Museum of American Art di New York nel 1977, del Palazzo a Vela di Torino nel 1983, della National Gallery di Washington nel 1998. Calder morì a New York nel 1976.
Marcel Duchamp disse di Calder: "Fra le "innovazioni" manifestatesi nel campo artistico dopo la prima guerra mondiale, il modo di trattare la scultura da parte di Calder era così lontano dalle formule tradizionali che dovette inventare un nome nuovo per le sue forme in movimento. Le chiamò mobiles. Esse affrontano il problema della gravità, appena disturbata da gentili movimenti, in maniera da dare la sensazione di "procurare piaceri che sono loro peculiari, ben diversi dal piacere di graffiare", per citare il "Filebo" di Platone. Una brezza leggera, un motore elettrico, o ambedue sotto forma di un ventaglio elettrico, mettono in moto pesi, contrappesi, leve che disegnano a mezz'aria i loro imprevedibili arabeschi e introducono un elemento di durevole sorpresa. La sinfonia è completa quando si uniscono colore e suono e invitano tutti i nostri sensi a seguire la non scritta partitura. Pura joie de vivre. L'arte di Calder è la sublimazione di un albero nel vento". Da Alexander Calder. Sculptor, Painter, Illustrator, catalogo della Société Anonyme per la galleria d'Arte della Yale University, 1950, ora in Michel Sanouillet (a cura di), Duchamp du signe, Flammarion Parigi 1975.
Fernard Léger, invece, disse di Calder: "Impossibile trovare un contrasto più grande di quello che c'è fra Calder, un uomo che pesa novanta chili; e le sue creazioni mobili, delicate, trasparenti. Simile a un tronco d'albero in moto, stimola tante discussioni, si muove come il vento: non è nato per passare inosservato! Sorridente e curioso fluttua nell'aria come se facesse parte della natura stessa. Lasciato a sé in un appartamento è un vero pericolo per ogni oggetto fragile. Il suo posto è piuttosto all'aperto, all'aria, al vento, al sole". Da Calder, "Derriére le miroir", n. 31, Paris Fondation Maeght luglio 1950.
Il grande fotografo Ugo Mulas sostenne, sull'opera dell'artista: "Mi piaceva il fatto che si dedicava a tutto con uguale intensità, che riuscisse a costruire dei forchettoni o dei mestoli per la cucina non meno belli delle sue sculture e, soprattutto, quei buffi lampadari costruiti sovrapponendo a cerchio due serie di forme da budini, e i supporti in filo d'ottone - che sono al tempo stesso sostegno molleggiato, protezione e manico - fatti per certe tazzine di porcellana, forse perché particolarmente care a Louise o forse semplicemente perché avevano perso il loro manico". Da L'amicizia, in Ugo Mulas, La Fotografia, a cura di Paolo Fossati, Einaudi, Torino 1973.
Infine lo storico e critico d'arte Giulio Carlo Argan sottolineò dell'opera di Calder: "È sicuro che tra cosa e spazio una pacifica e animata coesistenza sia comunque possibile: tutto sta o intendersi, a trovare la dialettica della relazione. Poiché il suo è, in fondo, un interesse morale, la legge della sua scultura è ancora, benché sembri strano, la mimesi. Per insinuarsi nella realtà vivente giuoca d'astuzia, si traveste: simula l'arbusto e la farfalla, il dondolarsi e il frusciare delle foglie sui rami. Inventa una natura artificiale perché gli uomini "artificiali" s'illudano di vivere in un ambiente naturale e conforme. Alla sua facile saggezza non manca una nota d'arguzia: a un mondo preso dalla frenesia del darsi da fare fa pacatamente l'elogio del moto che non serve, non ha direzione né scopo, è soltanto divertimento e giuoco". Da Calder, nel catalogo della mostra "Calder", galleria dell'Obelisco, Roma dal 14 marzo 1956.
Attulamente in mostra a Roma al Il Palazzo delle Esposizioni, a 25 anni di distanza dalla retrospettiva di Torino, un'esaustiva esposizione dedicata all'artista americano.
Concepito con uno sguardo sull'intera carriera artistica di Calder, il progetto, realizzato insieme con MondoMostre, non ha precedenti per forma e dimensioni. Piuttosto che presentare il corpus delle opere secondo il consueto ordinamento cronologico, la rassegna romana sarà infatti articolata in una serie di "mini esposizioni", ognuna delle quali incentrata su un aspetto della variegata opera dell'artista. La Calder Foundation metterà a disposizione l'intera collezione, composta da più di mille opere (dai primi dipinti a olio, ai gioielli, alle sculture di grandi dimensioni) tra le quali verrano selezionate le più significative e che saranno integrate con importanti prestiti dai più grandi musei del mondo, quali il Guggenheim, il Moma, il Whitney, la National Gallery di Washington, illustreranno un'esperienza creativa che ha rivoluzionato per sempre al storia dell'arte, anticipando la performance art di oltre quarant'anni e dando vita, con la prima scultura cinetica, a un genere completamente nuovo. Oltre agli hanging mobile (sculture cinetiche sospese) e agli standing mobile (sculture cinetiche a terra), la mostra ospiterà stabile (opere non cinetiche), sculture monumentali, opere su carta e di gioielleria.
Bibliografia essenziale:

- Calder, Alexander, An Autobiography With Pictures, Pantheon Books, 1966;
- Guerrero, Pedro E, Calder at Home. The Joyous Environment of Alexander Calder, Stewart, Tabori & Chang, New York, 1998;
- Prather, Marla, Alexander Calder 1898 - 1976, National Gallery of Art, Washington D.C., 1998;
- Rosenthal, Mark, and Alexander S. C. Rower, The Surreal Calder, The Menil Collection, Houston, 2005;
- Rower, Alexander S. C, Calder Sculpture, Universe Publishing, 1998;

venerdì 25 dicembre 2009

domenica 20 dicembre 2009

Le radici del complesso e fruttuoso rapporto tra arte e strumenti tecnologici

L'arte moderna, è stato accennato più volte nel anche mio blog, si è ridefinita attraverso le Avanguardie storiche (Espressionismo, Cubismo, Astrattismo, ecc..) iniziando ad interrogare la realtà creata dai nuovi strumenti tecnologici e comunicativi e rivedendo i ruoli in uno scenario in perenne mutazione.
Gli shock ora dimenticati delle nuove tecnologie del Novecento: fotografia, cinema, elettricità, automobile, treno, aeroplano, le complessità visive e motrici delle grandi città sono contenute in segni molteplici nei quadri e nei collage dei linguaggi visivi utilizzati o reinventati dalle Avanguardie. Linguaggi visivi di colpo in competizione con nuove e devastanti modalità di visualizzazione del reale.
Sono i Futuristi fra i primi a sentire la necessità di indagare la "percezione del moderno" attraverso una immedesimazione con la macchina produttiva e comunicativa portata fino alla simbiosi robotica.
In questo universo primariamente fatto dalle macchine è l'esempio perfetto della tecnica a fornire modelli operativi. Modelli a cui si rifà Giacomo Balla in una delle prime e folgoranti operazioni di "estetica meccanica" quale l'azione scenica " fuochi d'artificio".
In occasione della seconda tournée dei Balletti russi a Roma al teatro Costanzi il 9, 12, 15 e 27 Aprile 1917, per promuovere gli spettacoli, Sergej Djaghilev organizza una serie di eventi russi significativi per la vita culturale della diaspora russa: la prima del leggendario balletto di luci Fuochi d'artificio, con la direzione di Igor' Strvinskij e le scenografie di Giacomo Balla, l'esposizione dei quadri di Leonid Mjasin e la rappresentazione dell'Uccello di fuoco con le coreografie di Michail Fochin, le scenografie di Bakst, nella straordinaria interpretazione di L. Lopokova (L'uccello di fuoco) e di Mjasin (Il principe Ivan).
La "azione scenica di suono e luci in movimento", in Fuochi d'artificio pone le direttive per una dislocazione dell'operazione estetica dalle forme dell'arte plastica, bidimensionali o tridimensionali, ad una forma ibrida e nuova, meccanicamente azionata e basata sulla tecnologia elettrica. Come afferma Balla, per la realizzazione della sua scenografia in Fuochi d'artificio: "troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell'universo, poi li combineremo insieme...per formare dei complessi plastici che metteremo in moto...".
Ancora nel celebre Manifesto della "Ricostruzione futurista dell'Universo", Balla e Depero fissano idee circolanti da tempo nell'area delle Avanguardie: una funzione "prostetica" della macchina e della tecnologia che presuppone conversioni del campo percettivo verso una realtà filtrata dai mezzi meccanici. L'oggetto estetico diventa così un dispositivo avvolgente, una " macchina della fantasia e della percezione", che predispone spazio, ambiente e meccanismi per un coinvolgimento fisicamente globale dell'esperienza estetica.
Entusiasmo modellizzante verso la tecnologia, senso della mutazione, trasparenza e meccanica del corpo "macchina fra le macchine". Il Futurismo pone da subito la problematica del Cyborg, dell'innesto, della struttura corpo/macchina, il dubbio della fusione, la necessità dell'integrazione.
L'aeroplano, in tal senso, fornisce lo "sguardo da fuori" che definisce l'estraneità dalla condizione/terra, dai limiti di spazio e tempo su cui si è basata l'idea precedente di arte. Velocità, dislocazione, mutazione sono i concetti/slogan più volte ripetuti nelle accese invocazioni al moderno di una parte significativa del Futurismo. La tecnologia, la "macchina" viene investita dall'enorme aspettativa del moderno che cerca un segnale di cambiamento concreto, rivoluzionario, euforicamente e costantemente attivo.
Nello specifico l'aeropittura è una declinazione pittorica del futurismo che si afferma negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Come espressione del mito della macchina e della modernità caratteristico del movimento marinettiano, l'aeropittura manifesta l'entusiasmo per il volo, il dinamismo e la velocità dell'aereoplano.
Le caratteristiche dell'aeropittura e i temi guida si vanno precisando nel corso degli anni venti per trovare infine una codificazione nel manifesto l'Aeropittura futurista, redatto nel 1929 da Marinetti, Balla, Prampolini, Dottori, Leandra Angelucci Cominazzini e Somenzi.
Marinetti aveva tratto ispirazione per il manifesto dell'aeropittura dopo un lungo volo in idrovolante sul Golfo della Spezia.
Ma già dalla Biennale di Venezia del 1924, con Gerardo Dottori, e poi a quella del 1926, l'aeropittura aveva trovato tuttavia, nella pratica, una propria continuità formale in una resa che accentuava la scansione delle immagini per piani di colore sottolineando ora il carattere meccanico e dinamico dell'aviazione, ora forme di lirismo fantastico, naturalistico e spiritualistico ispirato al volo. Nel 1931 alla galleria Pesaro di Milano si tiene un'importante mostra di aeropittura focalizzata sui temi dell'idealismo cosmico.
Uno dei manifesti più significativi del Futurismo fu firmato da Enrico Prampolini, nel quale l'aeropittura viene descritta come uno strumento essenziale per soddisfare il desiderio latente di vivere le forze occulte dell'idealismo cosmico.
Bibliografia essenziale:

Angelo D'Orsi, Il Futurismo tra cultura e politica. Reazione o rivoluzione?, Roma, Editore Salerno, 2009;
I poeti futuristi, a c. di M. Albertazzi, con i saggi di G. Wallace e M. Pieri, Trento, La finestra editrice, 2004. L'opera contiene in appendice i manifesti futuristi;
Giovanni Antonucci, Storia del teatro futurista, Roma, Edizioni Studium, 2005;
Lia Lapini, Il teatro futurista italiano, Milano, Mursia, 1977;
Il dizionario del Futurismo, a c. di E. Godoli, 2 tomi, Firenze, Vallecchi-MART, 2001;
Cammarota, Domenico, Filippo Tommaso Marinetti, Bibliografia, Milano, Skira («Documento del MART» 5), 2002;
Id. Futurismo, Bibliografia di 500 scrittori italiani, Milano, Skira («Documenti del MART» 10), 2006;
Futurismo & Futurismi, a c. di P. Hulten, Milano, Bompiani, 1986;
Futurismo 1909-1944, a c. di E. Crispolti, Milano, Mazzotta, 2001;
Futurismo, Velocità e dinamismo espressivo, a c. di G. Lista, Santarcangelo di Romagna, KeyBook/Rusconi libri srl, 2002;
Il Futurismo e la moda, Balla e gli altri, a c. di E. Crispolti, Venezia, Marsilio Editori, 1986;
Futurismo & Sport Design, a c. di M. Mancin, Montebelluna-Cornuda, Antiga Edizioni, 2006;
Giacomo Properzi, Breve storia del Futurismo, Milano, Mursia, 1998;
AA.VV, Divenire 3 Futurismo, a c. di R. Campa e Associazione Italiana Transumanisti, Bergamo, Sestante Edizioni, 2009;
Leonardo Tondelli, Futurista senza futuro. Marinetti ultimo mitografo, Le Lettere, Firenze, 2009;



sabato 19 dicembre 2009

Arte in Europa 4: Alain Bublex

Se negli anni Sessanta e Settanta si è assistito, come abbiamo in parte accennato anche nel bolg, al raggrupparsi di artisti in movimenti quali la minimal art, l'arte povera, la narrative art, ecc., gli anni Novanta e il nuovo Millennio si sono invece presentati come territori scanditi da linee trasversali che, in un certo qual modo, paiono aver disegnato una sorta di rete aperta e discontinua. In Francia, in tal senso, gli artisti emersi in questi ultimi anni hanno sviluppato singoli rapporti molto forti, senza però che queste relazioni abbiano generato delle vere e proprie correnti artistiche. Per questo motivo fare un quadro dell'arte degli anni Novanta e del 2000 in Francia consiste, a mio avviso, non tanto nel delineare le proposte tecniche di un certo numero di "scuole", quanto nel tentare di descrivere almeno alcune figure di spicco di tale panorama, tra questi: Alain Bublex.
L'artista, nato a Lione nel 1961, studia presso l'École des beaux-arts de Macon, successivamente all'École supérieure de design industriel di Parigi, per approdare al Régie Renault dove riveste il ruolo di designer industriale; solo anni dopo si dedicherà totalmente all'arte contemporanea. Bublex può essere considerato come una delle figure di punta della celebre Galerie Georges-Philippe et Nathalie Vallois che inizia la sua fortunata attività proprio nei primi anni Novanta a Parigi. Egli evoca spesso nelle sue opere la "passione per la finzione" tanto da giungere ad elaborare tra i suoi progetti più ambiziosi parecchie versioni del prototipo Aérofiat: una vettura ibrida nata dal matrimonio tra una Fiat 126 degli anni Settanta e certe forme aerodinamiche degli anni Trenta, ma non sfruttate dall'industria automobilistica del tempo.
Questo ibrido appare come la descrizione di un'improbabile collegamento mancante tra forme aerodinamiche, prototipi degli anni trenta, e i veicoli di ogni giorno. L'artista gioca con il fascino provocato da simili prototipi, tanto che fotografie delle varie Aérofiats sono spesso presentati in set particolari e associati con altri prototipi industriali [questi veicoli sono funzionanti tanto che vi sono fotografie o filmati che possano testimoniarlo].
In tal senso gli interventi di Bublex paiono operare come agli albori dell'era industriale, rendendo, così, omaggio discreto al genio degli ingegneri del passato. Considerandosi un pò come depositario di un'eredità, l'artista rivisita nelle proprie opere la storia (industriale) degli uomini e delle loro invenzioni, cercando in qualche modo di ravvivare la fiamma degli inizi, di ritrovare la freschezza di spirito dei pionieri.
L'arte degli anni Novanta, e con essa quella di Bublex, sembra avvalorare la tesi di Marc Augé secondo cui la società attuale evolverebbe sotto il segno dell'eccesso, per cui l'"ipermodernità contemporanea" si caratterizzerebbe per una "sovrabbondanza di eventi", i quali conferirebbero al presente l'aspetto di un imbroglio senza uscita.
Come aprire una via al senso in questo labirinto sembra averlo in parte suggerito Bublex. L'ibrido resta l'unica strada da percorrere, come l'incertezza e la contaminazione.


Link importanti per saperne di più...:

Alain Bublex sur le site de Galerie Georges-Philippe et Nathalie Vallois
Article sur Alain Bublex dans La Paddythèque
Alain Bublex, « Tentative et Projets », 1998 Ministère de la Culture
Alain Bublex sur le site de "La force de l'art 02"




Arte Europea 3: Stefan Kern

La storicizzazione del passato recente, come evidente, sembra essere stata favorita anche dal cambio di Millennio. Per la Germania, però, occorre tener conto del fatto che, con la cosidetta "riunificazione" del 1989, paia essere intervenuta un'ulteriore cesura facente da parentesi temporale per la valutazione dell'arte degli ultimi anni. Nel corso della ristrutturazione politico-sociale che ha fatto seguito a questo evento, infatti, si sono verificati sostanziali mutamenti culturali nella vita della Repubblica: il principio di federalismo è stato progressivamente messo in discussione a favore di un accentramento sulla nuova capitale, Berlino. Il boom economico della città ha favorito anche il mercato dell'arte ed è servito insieme ai bassi canoni d'affitto e al generale clima di rilancio, da ulteriore stimolo per giovani galleristi ed artisti, tra questi: Daniel Pflumm, Tobias Rehberger, ecc.
Chiaramente seppure Berlino ha mostrato di essere l'ombelico del mondo dell'arte contemporanea in Germania, credo sia opportuno informare i miei visittatori del ruolo di altre interessanti città tedesche, negli ultimi anni, tra queste: Francoforte e la sua Scuola. In particolar modo penso possa rivelarsi fruttuoso ripercorrere brevemente le tappe di uno dei protagonisti dell'arte tedesca del momento: Stefan Kern.
L'artista, che oggi vive ad Amburgo, ha fatto parte negli anni Novanta di un gruppo di artisti di Francoforte le cui opere si basavano e si basano sulla differenza tra design e arte. Kern, infatti, nelle sue sculture, nei suoi oggetti e nelle sue installazioni, esamina i prametri del modo attuale di esporre le opere d'arte ed esplora il significato del classico White Cube.
L'artista produce oggetti dalle superfici perfette il cui canone formale si ricollega al minimalismo ma che, con la loro dichiarata funzionalità di normali oggetti d'uso (come panche o pedane), mettono in discussione l'aura dell'intangibilità dell'opera. Evidentemente, come le opere appartenenti al minimalismo hanno come caratteristica l'utilizzo di un lessico formale essenziale, composte come sono da pochi elementi, i cui materiali in alcuni casi derivano da produzioni industriali, o delle matrici formali della geometria, con rigore esecutivo, cromatismo limitato, assenza di decorazione, assenza di riferimento allegorico, oggetti geometricamente definiti, formati dalla ripetizione e variazione di elementi primari, ma fondamentalmente fatti per essere vissuti e "trasformati" dal fruitore.
In generale le sue realizzazioni, in effetti, possono essere visualizzate con distacco estetico - puramente come gli oggetti nello spazio che, come la casa albero,
funzionano da installazione di riempimento, invitando i fruitori ad essere utilizzate, non solo vivendole, ma anche privandole della loro aura. Nonostante le loro superfici di vernice bianca, che suggeriscono essenzilità ed eleganza, i pezzi sono progettati quasi come elementi di un parco giochi dove il visitatore possa sentirsi libero di farne l'uso che preferisce. Rispetto all'oggetto minimalista le opere di Kern invitano alla compentetrazione divertita tra opera e spettaore. In tal senso importante ricordare che Kern nel 2000 ha tenuto un'importante mostra personale presso il celebre Portikus di Francoforte, dove ha presentato un'installazione progettata specificatamente per quello spazio: un pavimento in lamine d'acciaio laccate bianco e nero e disposte a pettine. Su tale superficie i visitatori potevano camminare solo dopo essersi tolti le scarpe. L'opera di Kern, chiaramente ispirata alla tradizione dell'arte concettuale, ha trovato qui la sua espressione spaziale più compiuta.


mercoledì 16 dicembre 2009

Arte in Europa 2: Steve McQueen

Nell'ultimo decennio del XX secolo si è assistito a un decisivo cambiamento nella scena artistica britannica. Non soltanto perchè si sono affacciate nuove generazioni, o perchè l'arte si è fatta notevolmente più vigorosa, variegata e più soggetta a un marketing aggressivo. Nel corso degli anni Novanta l'arte ha attratto l'interesse dei media a un livello senza precedenti, tanto da verificarsi un chiaro mutamento nell'atteggiamento del pubblico britannico versi i suoi eventi.
Quando si parla di arte britannica è pur vero che si parla soprattutto di Londra; città particamente in equilibrio tra America ed Europa. Proprio a Londra, negli ultimi anni, il cinema ed il video sono stati al centro di un forte interesse, tanto da favorire l'ascesa di uno dei maggiori video-artisti del momento: Steve McQueen.
L'artista nasce a Londra nel 1969 frequenta il Chelsea School of Art, il Goldsmith College e successivamente, negli anni Novanta, la Tisch Scholl of the Art della New York University.
McQueen parte da una critica radicale dei canoni tradizionali della regia cinematografica, modificando, ad esempio, radicalmente il posizionamento della videocamera, in modo tale da costringere lo spetttore a "vedere" le azioni da un punto di vista inusuale. In Bear, opera del 1993, due lottatori vengono ripresi in una sorta di danza rituale ispirata ad una mischia di rugby nella quale l'artista privilegia un ipotetico "punto di vista della palla".
Sulla scia delle precedenti esperienze di dannis Oppenheim, Vito Acconci e Peter Campus, inoltre, Steve McQueen propone nelle proprie installazioni, come evidente in Catch (1997), la riduzione in chiave minimalistica dell'azione filmica per aumentare l'impatto diretto dell'immagine sullo spettatore. Caratteristica della sua produzione è anche la volontà di mostrare l'incontro-scontro di elementi formali ed emotivi, uomo/donna, inibito/disinibito, sopra/sotto che accentuano l'effetto globale di straniamento dello spettatore. L'artista ha esposto in varie Biennali d'Arte, anche recentemente(2007-2009), con opere video degne di nota. Tra le sue recenti creazioni merita però di essere presentata ai miei visitatori "Hunger".
McQueen per questa creazione é stato candidato al Gucci Group Award 2008.
Il film di grande impatto anche dal punto di vista emotivo, è dedicato alle ultime sei settimane di vita di Bobby Sands, il noto membro dell’IRA morto in carcere a causa dello sciopero della fame.
La storia di Bobby Sands portata sullo schermo da Steve McQueen, autore anche della sceneggiatura con Enda Walsh, si divide in tre capitoli: violenta e ricca di azione, con rumori assordanti, la prima parte, che documenta cosa significava vivere, come prigioniero ma anche come guardia carceraria, nel blocco H. Un dialogo, magnificamente scritto e interpretato, tra Bobby Sands (Michael Fassbender) e padre Dominc Moran (Liam Cunningham) è il cuore del film, in cui le motivazioni, la disperazione, la determinazione di Bobby Sands emergono poco a poco da un serrato confronto dialettico. E infine il digiuno, la discesa negli inferi della sofferenza da denutrizione, fatta di silenzi lunghissimi che lasciano parlare le immagini fino alla morte.
Film duro, intenso ed epico per il video artista inglese Steve McQueen, le cui opere sono state esposte nei musei di tutto il mondo, che si cimenta con un argomento difficile, in cui gli aspetti storici - la guerra in Irlanda - e la tragedia personale di Bobby Sands si mescolano trascinando lo spettatore in un vortice di violenza e sofferenza.
Mc Queen usa la macchina da presa, alternando linguaggi diversi con immagini sempre drammatiche che descrivono senza mai esprimere alcun giudizio politico.
In tempi in cui le missioni suicide sembrano essere il pane quotidiano dei telegiornali, ripercorrere la vicenda di Bobby Sands acquista un valore simbolico proprio per il lungo protrarsi della sua protesta, che lo ha portato a essere conosciuto in tutto il mondo come una figura emblematica, icona di coraggio ed eroismo. Il corpo diventa per Bobby Sands l’estremo strumento di protesta, un "luogo di conflitto politico".
Vincitore a Cannes della Caméra d’Or nella sezione Un certain Regard, Hunger è uscito nelle sale in Francia il 26 novembre 2008.


Bibliografia essenziale dal 1997:

R. Garnett, The british Art Show4, Art Monthly 192 (dicembre 1995-gennaio 1996);

J. Winkelmann, Steve McQueen, Art/Text 58 (agosto-ottobre 1997);

D. Frankel, Openings, Artforum 36, n.3 (novembre1997);

P. Sega Zanetti, L'arte e la videoarte di Mona Hatoum e Steve McQueen, "Terzocchio", n.86, (gennaio 1998);

Arte in Europa 1: Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan, il più quotato sul mercato tra gli artisti italiani viventi, nasce a Padova nel 1960 ma non frequenta alcuna accademia d'arte, sviluppando il suo talento artistico come autodidatta. Comincia la sua carriera a Forlì in Italia, negli anni Ottanta, frequentando alcuni artisti del luogo. Le sue poliedriche opere combinano la scultura con la performance, ma spesso includono anche eventi quali "happening", azioni provocatorie di rottura, pezzi teatrali, testi-commento su pannelli che accompagnano opere d'arte sue e non, articoli per giornali e riviste. Alcuni critici lo considerano il re dei provocatori burloni, tanto che è stato definito da Jonathan P. Binstock, curatore d'arte contemporanea, come "uno dei più grandi artisti post-duchampiani ed un furbacchione, anche"; altri studiosi lo definiscono un maestro della provocazione che si serve dei media ed abusa del mondo dell'arte.
Più recentemente, Maurizio Cattelan ha intrapreso anche il ruolo di curatore artistico.
Il suo debutto artistico è avvenuto nel 1991, nel corso di Arte Fiera a Bologna dove ha realizzato una performance intitolata Stand abusivo.
Sui due lati di un tavolo da calcetto, di dimensioni assolutamente abnormi, si sono fronteggiate due vere squadre di calcio, la prima composta da 11 uomini bianchi, la seconda - la A.C.- da 11 uomini di colore che hanno indossato una maglietta con il logo RAUSS, lo slogan con cui i nazisti appellavano gli ebrei. Attraverso le sue installazioni, azioni e performance, Cattelan si è preso e si prende gioco del mondo dell'arte e dei suoi paradossi, criticandone le dinamiche della produzione culturale, le politiche, le gerarchie sociali, gli interessi economici. Nei suoi interventi si è sempre avvertito il gusto dello spettacolo, dell'umorismo, del grottesco.
Già nel 1986 aveva lanciato una provocazione, con «Untitled», una tela squarciata in tre pezzi alla maniera di Lucio Fontana, creando però la «Z» di Zorro, suo «marchio» negli anni successivi. In Senza titolo, 1993, acrilico su tela 80 x 100 cm. Cattelan ha stabilito così il suo personaggio di vendicatore mascherato che ha giurato di gettare luce sulla commedia umana, attraverso il filtro del sistema dell’arte. In questo, apparentemente semplicissimo, lavoro, a prima vista minimale ed immediatamente accessibile, si possono ritrovare tutte le figure retoriche che hanno costituito il suo modus operandi: l’appropriazione caricaturale di lavori del passato, la favola moralizzante e, soprattutto, questa insolente maniera di irrompere nel sistema dei valori, che è la caratteristica prima del suo fare.
L'artista si è guadagnato, in tal modo, un forte riscontro del pubblico e dal mercato dell'arte, tanto che in una performance a Milano, ha attaccato al muro con lo scotch il suo gallerista Massimo De Carlo.
L'opera più nota più nota di Cattelan «La Nona Ora», invece, è una scultura che è stata realizzata nel 1999, raffigurante Giovanni Paolo II abbattuto a terra sotto il peso di un enorme meteorite e circondato da vetri infranti.
Al centro di molte polemiche, il lavoro è stato esposto alla Royal Academy di Londra e a Varsavia e battuto da Christiès nel 2001 per la cifra record di 886 mila dollari, all'epoca equivalenti a due miliardi di lire.
È più facile situare il lavoro di Maurizio Cattelan nel suo tempo che articolare verbalmente la logica che governa le sue figure, in quanto l’artista procede ed ha proceduto per successivi effetti di seduzione. Di fronte ad ogni nuova apparizione si è sempre tentati di dire: "no non è possibile, non può esibire questo.." Lo spasso di Cattelan non ha limiti ed il suo continuo alzare la posta in gioco del suo meccanismo comico finisce col creare una specie di schermo attorno al suo lavoro, che scoraggia analisi e lascia a bocca aperta.
Ai Caraibi, per esempio, l'artista ha organizzato la «sesta Biennale»: peccato che non ce ne fossero mai state prima e non ne siano seguite altre. La manifestazione, infatti, consisteva in un paio di settimane di villeggiatura gratis per gli artisti invitati e nessuna opera esposta, tanto da lasciare a bocca aperta le delegazioni di critici accorsi inutilmente.
Per concludere questo breve excursus su Cattelan va infine ricordato a New York, sulla 20esima strada, una vetrina minimale, da lui aperta, la «Wrong Gallery», dove di volta in volta è stato esposto un artista. Tale manifestazione è sempre stata un evento, al punto che i newyorkesi ne sono andati e ne vanno matti. Le critiche rivolte al sistema dell’arte sono state spesso parte integrante del lavoro di Cattelan e hanno frequentemente rivelato e totalmente anticipato molte realtà contemporanee.
Cattelan non si è risparmiato le sue uscite spiazzanti neanche nel giorno della laurea honoris causa conferitagli dalla facoltà di Sociologia dell'università di Trento. Identificandosi con un asino, ne ha regalato uno imbalsamato all'ateneo. Titolo dell'installazione «Un asino tra i dottori».
L'autorevole rivista britannica Art Review ha inserito l'artista italiano Maurizio Cattelan al quarto posto nella lista delle persone più influenti del mondo dell'arte contemporanea. Una ''consacrazione'' che premia la fine di un'ottima annata per le quotazioni dell'artista padovano, le cui opere hanno raggiunto prezzi record nelle case d'aste più prestigiose del mondo. Nella Top 100 compilata dalla rivista britannica, Cattelan è preceduto dal gallerista e mercante d'arte americano Larry Gagosian (primo), dal direttore del Museo di Arte Moderna di New York, Glenn Lowry (secondo) e dal direttore della Tate di Londra, Nicholas Serota (terzo). Fra le opere di Cattelan, Art Review ha ricordato la discussa installazione dei tre bambini impiccati alla quercia secolare di piazza XXIV Maggio a Milano e la controversa statua di cera del Papa colpito da un meteorite.



Bibliografia essenziale:


Maurizio Cattelan , London, Phaidon Press, 2000;
6th Caribbean Biennal - A Project by Maurizio Cattelan , Dijon, Les presses du réel, 2001;

Le Quotazioni di Cattelan...curioso fenomeno

Il lavoro di Maurizio Cattelan simula e sovverte le regole della cultura e della società, in un continuo gioco di sconfinamenti e gesti di insubordinazione. La "consacrazione" di Art Review, come già visto, sancisce e rafforza la costante ascesa dei prezzi delle opere di questo artista italiano. Nel giro di pochi mesi le sue opere hanno raggiunto quotazioni record nelle aste di arte contemporanea più prestigiose del mondo. Tempo fa, sull'ondata del polverone mediatico sollevato dall'installazione dei bambini fantoccio impiccati a Milano (e si sa che non c'è niente come una polemica per spingere al rialzo i prezzi delle aste di arte contemporanea), 'La ballata di Trotsky', messa in vendita da Sotheby's a New York dall'editore della rivista di avanguardia 'Interview' Peter Brandt, aveva raggiunto i due milioni di dollari.



L'opera raffigurava e raffigura un cavallo vero, impagliato, sospeso con cinghie al soffitto ed è del 1996: Cattelan l'ha definita ''una potente immagine dell'impotenza'' riferendosi agli ideali rivoluzionari di Trotsky. La stima di partenza era 800.000 dollari. Il cavallo ha raddoppiato il valore nel 2001, quando è passato di mano l'ultima volta da Christie's a Londra.
Brandt, che nelle sue raccolte ha opere di Andy Warhol, Basquiat e Jeff Koons, che l'aveva pagato 900 mila dollari, in tre anni si è visto più che raddoppiare l'investimento di partenza.
A novembre le quotazioni dello scultore padovano sono schizzate ancora più in alto da Christie's grazie a un elefante coperto da un lenzuolo battuto per 2,7 milioni di dollari.
'Not Afraid of Love', questo il titolo dell'elefante alto quasi due metri di poliestere, stirene e resina i cui occhi, proboscide e le zampe fuoriescono da un vasto lenzuolo bianco era stato messo in vendita da Jane Holzer, una salottiera newyorchese che negli anni sessanta aveva fatto parte dell'entourage di Andy Warhol. La stima per questo pezzo del 2000 era di 700-900 mila dollari. In quella stessa asta un'installazione senza titolo del 2001 realizzata per una mostra al Museum Boijmans Van Beuningen in Olanda in cui l'artista faceva capolino da un buco nel pavimento doveva valere, nelle stime della casa d'asta, 700-900 mila dollari, mentre poi è stato aggiudicato per due milioni di dollari. Appena il giorno dopo, sempre a New York, Maurizio Cattelan è stato protagonista di un altro exploit: la 'Nona Ora' che raffigurava e raffigura papa Giovanni Paolo II in abito bianco schiacciato a terra dal peso di un meteorite, è stato battuto da Phillips, De Pury and Co. (una casa d'aste di minor rango rispetto a Sotheby's e Christie's, ma con più grinta sul mercato dell'arte contemporanea, che i due giganti del settore tendono a snobbare) per tre milioni di dollari, stabilendo l'attuale record di prezzo per l'artista padovano. La celebre installazione del 1999 era stata venduta nel 2001 da Christie's al gallerista ginevrino Pierre Huber per 886 mila dollari e ha dunque, in tre anni, più che triplicato il suo valore. Le quotazioni, considerate stellari, delle opere di Cattelan da un lato riportano in auge l'arte contemporanea italiana sulle piazze internazionali, dall'altra hanno fatto gridare agli esperti d'arte l'allarme ''bolla'' per i prezzi che i collezionisti di arte sono stati disposti a pagare. Quel che è strabiliante, secondo gli esperti, è la rapidità con cui di questi tempi un'opera passa dall'atelier dell'artista alle gallerie e di qui al mercato aperto delle aste in una precipitosa gara al rialzo. Al momento la tendenza del mercato è al rialzo. Secondo l'Art Market Research di Londra i prezzi per i maggiori artisti contemporanei sono saliti del 72 per cento negli ultimi tre anni. Questo boom del mercato è favorito anche dalla debolezza del dollaro, che ha reso New York una piazza interessante per i compratori che vengono dall'estero.

Arte Contemporanea in Europa 1990-2000, tra storia e geopolitica








Gli artisti e le opere, fin ora presentate nel mio blog, hanno seguito un fil rouge di tipo non cronologico bensì concettuale; con ciò intendo dire che ho preferito introdurre i miei visitatori nel complesso e talora contraddittorio mondo dell'arte per via tematica, evitando di scivolare in facili schematismi di tipo nazionalistico o politico.
Arrivati a questo punto però, prima di passare al vaglio le opere di alcuni promettenti artisti europei, credo possa rivelarsi fruttoso riflettere su determinati nodi chiave della Storia e della Geopolitica europea dal 1990 al 2000 ca.; un periodo, questo, caratterizzato da rapide trasformazioni e da tentativi di riconfigurazione economica, sociale e politica a seguito di eventi quali la caduta del muro di Berlino, la frammentazione di nuovi stati, le guerre nell'ex Jugoslavia, l'introduzione dell'Euro e il dibattito sul ruolo dell'Unione Europea.
Nell'ambito di tale arco temporale si è imposto un concetto chiave come quello di "Globalizzazione", mentre contemporaneamente sono sorti nazionalismi e la rivendicazione di specifiche identità culturali.
Anche nelle arti visive si sono verificate tendenze apparentemente contraddittorie. Infatti da una parte sembra essersi consolidato uno scenario transnazionale attraverso musei, riviste specializzate, il diffondersi della comunicazione informatica (come abbiamo già visto nel Blog) e la nascita di nuove importanti rassegne espositive, non solo europee; al tempo stesso hanno ritrovato vigore espressioni artistiche di carattere locale, spesso poco note al di fuori dei rispettivi confini nazionali. Per tale ragione desidero proporvi, in un susseguirsi di interventi, le realizzazioni di tre figure artistiche centrali in tal senso: Maurizio Cattelan (Italia), Steve McQueen (Gran Bretagna), Stefan Kern (Germania), Alain Bublex (Francia).

Per approfondimenti ulteriori, in relazione a tali argomenti, rimando al testo:


Arte in Europa 1990-2000, (a cura di) G. Maraniello, Skira editore, Milano, 2002;

lunedì 14 dicembre 2009

Per restare in tema di Arte Post-human.....Orlan

Artista e perfomer francese, insofferente ad ogni condizionamento accademico, Orlan (nata il 30 maggio 1947 a Saint-Etienne, Francia), non è solo una figura inscindibile dalla Body Art, ma anche la capofila di quella che viene definita arte post-organica o post-umana.
Al centro della sua poetica, oltre alla ricerca intorno al tema della propria identità, la lotta contro la mercificazione del corpo femminile e la possibilità etica di riprogettarsi oltre le imposizioni restrittive del controllo legale.
Mutante contemporanea e sperimentatrice coraggiosa, Orlan indaga sulla sua pelle l’esigenza di metamorfosi e virtualità.
Nove operazioni-performances di chirurgia plastica, in cinque anni, dal maggio del 1990, ispirate da un progetto di ridefinizione facciale archetipica dal titolo: "The Reincarnation of Saint Orlan", hanno progressivamente trasformato il suo volto in quello di una nuova creatura simile ai modelli iconografici della Storia dell’Arte come Diana, Europa, Venere, Psiche e la Gioconda. Orlan interpreta in termini “chirurgici” il suo corpo, materia prima che deve essere manipolata e refigurata per verificare le sue potenzialità metamorfiche e per “rimettersi al mondo di nuovo”. Usare la chirurgia estetica, usare se stessa come artista e come soggetto artistico e rimettere il tutto in un’unica immagine dove la metamorfosi fisica e di identità risulta essere la componente fondamentale di una ricerca che sta portando Orlan ad indagare altri spazi della mente, ambigui ma anche affascinanti e seducenti, che capovolgono il principio cristiano del verbo che si fa carne in carne che si fa verbo.

Modificarsi in identità diverse dal genere di appartenenza portano Orlan a sondare un territorio dove il verosimile ed il vero, il fittizio ed il reale convivono in un mistero trinitario: rimangono comunque il corpo dell’artista o il materiale in esubero dei suoi interventi chirurgici “disseminato” sulle sue opere, a certificare che una particella di realtà si è inserita in un vortice irrequieto di surrealtà e finzione, dando vita ad una nuova esistenza.

E' del 21 novembre 1993 a New York la sua settima operazione chirurgica-performance nel corso della quale si è fatta apporre due impianti di silicone al lato della fronte, che creano così due visibili protuberanze simili a piccole corna. Fra le "opere" che Orlan normalmente commercializza vi sono anche le videocassette delle riprese delle sue operazioni o i reperti organici che le operazioni stesse inevitabilmente producono e che, inseriti in appositi contenitori di varie dimensioni, lei chiama "reliquiari".
Per capire le punte estreme a cui il discorso estetico di Orlan è andato incontro basta sfogliare la voce dedicata a lei apparsa nel "Dizionario del teatro e dello spettacolo" pubblicato da Baldini e Castoldi, in cui il suo lavoro viene così sintetizzato: "Orlan sta attuando su se stessa una metamorfosi fisica e di identità tra le più radicali e controverse nel panorama artistico contemporaneo".
Orlan ha iniziato le sue prime performances nel 1964, al principio con alcune bizzarre operazioni estetiche (come quella di misurare spazi cittadini con il suo corpo, facendosi cioè trascinare per terra. L'unità di misura inventata da lei era proprio in "orlan"). La sua prima performance chirurgica risale invece al 1978, un'operazione d'urgenza metodicamente filmata in video.
Nel 1982 fonda "Art-Accès", la prima rivista d'arte contemporanea e di creazione presente su Minitel, la rete telematica francese presente su scala nazionale. Nel 1983 viene incaricata dal Ministère de la Culture di preparare un rapporto sull'Arte-Performance e nel 1984 insegna all'Ecole Nationale des Beaux-Arts de Dijon. Nel 1998 prepara (in collaborazione con Pierre Zovilé) delle fotografie con il computer e alcune installazioni video interattive a partire dalle trasformazioni del corpo presso i Maya e gli Olmechi.
Artista nota in tutto il mondo, le sue performance sono ormai sostenute anche dal Ministero francese della Cultura e da quello degli Affari Esteri.

domenica 13 dicembre 2009

Posthuman e arte contemporanea

Uno dei ruoli primari dell'arte, come ho tentato più volte di ribadire anche nel mio blog, è di contribuire a rappresentare e a definire l'identità naturale, sociale e culturale, del proprio tempo. Oggi, tale identità è costantemente e sempre più rapidamente modificata dalla ricerca tecnoscientifica. Gli aspetti epistemologici ed etici del rapporto tra ricerca tecnoscientifica e società sono dunque diventati oggetto di crescente attenzione da parte degli artisti contemporanei.
In effetti, le sempre più sofisticate tecnologie di controllo e manipolazione del vivente da un lato (biotecnologia, ingegneria genetica etc.), e di elaborazione e trasmissione di informazione digitale dall'altro (realtà virtuale, intelligenza artificiale, etc.), impongono la rielaborazione di alcune dicotomie fondanti del pensiero moderno, scientifico e non; in particolare, quella tra materia organica ed inorganica, tra vivente e non vivente, tra ente biologico e meccanico, ed infine tra generi, maschio/femmina, e tra specie, specificamente, tra la specie umana e le altre specie animali. Tale rielaborazione coinvolge in egual misura e con uguale urgenza discipline filosofiche tradizionalmente distinte quali la filosofia della cienza, l'etica e la filosofia del diritto.
In questo complesso panorama multidisciplinare e transdisciplinare, l'arte contemporanea si fa tramite tra il complesso apparato della ricerca tecnoscientifica e la società. Abbandonando la mera funzione di rappresentazione ed appropriandosi non solo dei concetti, ma spesso anche dei mezzi e delle strutture proprie della tecnoscienza, nuove forme di ricerca artistica quali, fra le altre, la posthuman art, la body art, l' information art, la transgenic art, l' art of the semi-living, esplicitano in forma sensoriale diretta, tramite installazioni e performances, la tensione dicotomica tra concetti in origine mutuamente esclusivi, evidenziando l'esistenza di una pluralità di controverse commistioni semantiche, epistemiche ed ontologiche.
Nel 1991 il critico e curatore Jeffrey Deitch presenta a New York una collettiva dal titolo Posthuman, coniando un termine, il postumano, destinato a diventare una corrente artistica ben definita ed un movimento di pensiero importante nella cultura anglosassone.
Concetto cardine del pensiero postumano è quello di superamento di limite biologico. Per la prima volta nella storia, la specie umana ha la possibilià di intervenire direttamente nel proprio processo evolutivo, sia a livello ontogenetico, con una conoscenza sempre più approfondita del DNA, sia a livello filogenetico, con la creazione di intelligenza sintetica, di computer organici, di protesi biologiche ed informatiche.
Come afferma Deitch: "(...) Per l'artista post-human, l'opera si identifica in una procedura ricostruttiva del corpo, alterato nella sua identità biologica in un processo di biodiversificazione tra arte, scienza e tecnologia, che ha come fine una mutazione genetica, un nuovo corpo, una nuova personalità, una nuova psicologia, talvolta attraverso autoaggressive trasformazioni somatiche, a metà tra performance, body art e chirurgia plastica: il corpo naturale, anacronisticamente superato ed inadatto al mondo tecnologico in cui si colloca, si adegua artificializzandosi in una esasperata ricerca di identifcazione con una realtà nuova."
Si passa così da una concezione del corpo come limite che fissa l'identità fisica e psichica, al corpo come supporto di un'identità mobile.
Esempio chiave di arte postumana è quello dell'artista australiano Stelarc la cui ricerca è basata sull'idea che il corpo biologico è oggi obsoleto poichè esiste la possibilità concreta di ibridizzarlo con la meccanica, l'elettronica ed il biologico creato in laboratorio (soft prosthesis).
Da manifestazione di una mancanza, la protesi si fa segno di eccesso, di superamento dei limiti imposti dalla natura.
Nel 1997, Stelarc si fa impiantare un braccio meccanico sul tessuto del braccio destro. La protesi è attivata dai muscoli addominali e delle gambe, e i suoi movimenti sono dunque determinati da quelli di altre zone del corpo, ibridizzando così biologico e meccanico.
Di più recente realizzazione (2003) è una protesi biologica, una copia in miniatura del suo orecchio destro, ottenuta da colture cellulari, in collaborazione con il gruppo di artisti, anch'essi australiani, The Tissue Culture and The Art Project.


Questi ultimi, si dedicano alla coltura cellulare come tecnica per esplorare il confine tra vivente e non vivente. Le loro opere consistono in frammenti di tessuto cellulare, coltivati in vitro e mantenuti "in vita" da un apparato di laboratorio opportunamente trasferito dal contesto della ricerca scientifica a quello delle gallerie di arte contemporanea. La materia vivente è contemporaneamente il mezzo - si parla di scultura semi-vivente- ed il fine dell'opera artistica.
La loro attività di ricerca è svolta nella School of Anatomy and Human Biology della University of Western Australia in un laboratorio di ricerca, SymbioticA, interamente dedicato all'esplorazione artistica della conoscenza scientifica in generale, e delle tecnologie biologiche in particolare (The Art and Science Collaborative Research Laboratory http://www.symbiotica.uwa.edu.au/). La finalità di tale centro di ricerca sperimentale è di esaminare criticamente gli assunti del metodo scientifico tradizionale e i loro limiti attuali. Si assiste ad una sempre crescente necessità di estendere la partecipazione al processo tecnoscientifico ai non-scienziati, si legge nel mission statement di SymbioticA, e gli artisti per primi hanno la possibilità, se non il dovere, di partecipare attivamente alla definizione dei possibili scenari futuri determinati dalla implementazione delle nuove concoscenze tecnoscientifiche.
Altro esempio di 'arte estrema', come viene definita dal filosofo Paul Virilio nel saggio Art and Fear, è quello della transgenic art, l'arte trangenica del brasiliano-americano Eduardo Kac.
Sua opera chiave è la realizzazione, o meglio la creazione di Alba, un coniglio transgenico, luminescente se illuminato con una particolare frequenza elettromagnetica.

L'opera Alba è non solo una scultura vivente, creata in laboratorio, ma anche e soprattutto, l'insieme di pubblici dibattiti suscitati dalla sua esistenza e la sua integrazione nella famiglia dell'artista come creatura altra alla quale rapportarsi con cura e dedizione.
La finalità di questo tipo di sperimentazioni trans-disciplinari è dunque di suscitare il pubblico dibattito simulando le ricadute della tecnoscienza sulla società in una forma estremizzata. Se da un lato, la partecipazione allargata al processo tecnoscientifico è oggi non solo auspicabile, ma necessaria, d'altro lato le implicazioni epistemologiche, etiche e giuridiche di una tale estremizzazione, seppur localizzata, sono molteplici e controverse. Come sostiene il critico Deicth
"(...) Al di là delle sue innegabili e plateali forzature, delle sue istrioniche provocazioni,
Post-Human è anche il tentativo di un avvio di dialogo tra arte e scienza, seppure in termini apocalittici ed in alcuni casi dichiaratamente truci ed inquietanti, per una mutazione (mostruosa?) della specie, ma anche delle emozioni e delle fantasie dell'uomo, senza limiti né
confini, espressione più vera della libertà dell'anima, che il moderno mondo artificiale potrebbe anche assecondare e potenziare".
Per saperne di più..
Associazioni transdisciplinari

Postumano

Collettive itineranti:

giovedì 10 dicembre 2009

Monica Bonvicini...tra architettura, arte e nuovi media

L'artista che desidero presentarvi ora nel mio blog è una giovane promessa nella cultura artistica contemporanea: Monica Bonvicini.
Monica Bonvicini è nata a Venezia nel 1965, mentre vive a Berlino dal 1986.
Presente in numerose rassegne internazionali tra cui la Biennale di Venezia del 1999, dove ha vinto il Leone d’Oro (con Lambri, Esposito, Toderi, Pivi), e la Biennale di Istanbul del 2003, ha esposto nello stesso anno al Museo d’Arte Moderna di Oxford e (con Sam Durant) alla Secessione viennese.
Nel corso dell’ultimo decennio la giovane artista ha prodotto video, installazioni e fotografie che hanno investigato e rivelato i legami esistenti tra strutture architettoniche e strutture di potere. Interessata a decostruire la presunta neutralità dell’architettura e dell’arte moderna ne ha riletto i pregiudizi, lo sguardo maschile dominante, ne ha messo a nudo non solo le mitologie a monte, ma i meccanismi economici, culturali e sociali che ne hanno regolato l’esistenza.
I suoi lavori hanno invitato e invitano lo spettatore a stabilire un dialogo fisico con le opere, sulle quali spesso si può camminare, ci si può stendere e/o toccarle.
La sua ricerca ha, così, messo in evidenza anche la volontà di “precisare certe cose che normalmente sono state date per scontate”, ad esempio, rileggendo in tono dissacrante il concetto classico di ‘creazione’ artistica, realizzando opere in cui l’elemento principale non sia la costruzione del lavoro, bensì la sua distruzione (si veda il video Hammering Out, in cui una parete bianca viene martellata continuamente, oppure Plastered, dove un pavimento di
cartongesso e polistirolo viene distrutto dal continuo passaggio del pubblico).
Questo tentativo di superamento dei ‘generi’ tradizionali e della idealizzazione dell’artista, permette a Bonvicini di riflettere sull’influenza dei media, nella definizione ed imposizione dei ruoli nella società, creando strutture ed ambienti che rileggano in maniera dissacrante alcuni miti contemporanei (si veda la garçonniere del perfetto scapolo secondo Playboy nell’opera Eternmale)
rivelandone i legami esistenti tra strutture architettoniche e strutture di potere. Come già detto i suoi lavori invitano lo spettatore a stabilire un dialogo fisico con le opere, per esempio in Plastered, dove un pavimento in cartongesso si distrugge progressivamente con il passare del pubblico, l’artista sta invitando a compiere questa azione suggerendo una rilettura critica dello spazio neutro della galleria d’arte.
In Destroy She Said, invece, l’artista guarda alla relazione tra lo spazio architettonico e i corpi femminili: in uno spazio apparentemente ancora in costruzione, una doppia proiezione mostra estratti da film degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, dove i corpi delle attrici sono costretti da elementi architettonici (contro un muro, una porta ecc.).
Infine, per concludere questa breve carrellata di alcune delle opere di Bonvicini, nel video Hausfrau Swinging una donna nuda con la testa infilata in una casa di cartone, sbatte la testa contro i muri dell’angolo in cui si trova. Dietro al monitor è installato un angolo che ricorda quello presente nel video, che dà allo spettatore la sensazione di essere immerso nello spazio dove avviene la ripresa.
Per saperne di più...: Le Donne e l'Arte, le donne e l'arte nel XX e XXI secolo, a cura di Uta Gorsenick, Taschen, Colonia, 2001;

martedì 8 dicembre 2009

L'originalità secondo Sherrie Levine.

L'opera di Sherrie Levine è un esempio di cosa significhi lavorare nel mondo artistico postmoderno, in un momento in cui le conquiste che hanno fatto epoca nell'arte moderna, come i pannelli monocromatici in pittura ed il ready-made in scultura, sono ormai un ricordo.
Sherrie Levine riteneva e ritiene che tra gli artisti contemporanei e quelli del passato esista una sorta di rapporto edipico represso e che l'unico linguaggio artistico accessibile ad una donna possa essere creato dagli uomini e basato su desideri e aspirazioni maschili. L'artista ha cercato, così, di esprimere tale condizione angosciosa in molte delle sue opere.
La sua vita professionale comincia con il progetto Shoe Sale, nel 1977, lavoro nel quale Sherrie Levine mette in vendita, nel magazzino al numero 3 di Mercer Street (uno spazio artistico newyorkese), 35 identiche paia di scarpe da bambino nere con i lacci, simili a una fallica versione in miniatura di scarpe da uomo.
In Shoe Sale sono già presenti le problematiche principali dell'opera dell'artista: il carattere feticistico e nello stesso tempo la condizione di merce del prodotto artistico, la questione dell'originale e dell'originalità, la natura dell'articolo unico e destinato a soddisfare le esigenze di un particolare cliente e del prodotto fatto in serie.
Anche per tale serie di ragioni all'inizio degli anni '80 Sherrie Levine è stata considerata l'esponenete più rappresentativa della cosidetta Appropriation Art, una corrente artistica che si fondava sull'appropriazione critica di immagini già esistenti nella cultura elevata e di massa.
Il dibattito sulla sua opera è stato, perciò, incentrato sulla demistificazione delle figure di culto maschili dell'era moderna e sulla scomposizione di concetti come "autore", "originale" o "originalità". Come l'artista stessa sostiene: "...sono interessata a tutto ciò che è corporeo e voluttuoso, ma anche a ciò che è imprevedibile e instabile. Mi piace la casualità proprio come mi piace la ripetizione perchè include una sequenza infinita di surrogati e incontri mancati".
Per ulteriori approfondimenti sull'artista si consiglia la lettura del volume:
Uta Grosenick (a cura di), "Le Donne e l'Arte nel XX e XXI secolo", c.e. Taschen, Colonia, 2001;

Levigatezza ed essenza...Katharina Fritsch

Il titolo del mio blog "arte contemporanea e nuove tecnologie", come ribadito in principio, si prefigge tra gli obiettivi quello di sensibilizzare i visitatori nei confronti delle ultime produzioni in ambito artistico. A tal proposito mi sono permessa di suggerire e proporre i profili di alcune figure di spicco della cultura artistica contemporanea (Mariko Mori, Bill Viola, ecc..), legati in modo viscerale alle nuove tecnologie (video, computer graphic ecc..), fino a giungere alla conoscenza di un'insolita scultrice come Katharina Fritsch, che ha fatto della "perfezione" tecnica un suo punto di forza.
L'artista realizza, ed ha realizzato, forme, figure e oggetti in cui la "perfezione" pare essere l'elemento primario. Il carattere irritante (talvolta) di queste sculture potrebbe essere definito l'opposto della fotografia.
Infatti, mentre in fotografia il particolare sembra catturare l'attenzione ed è ciò che costituisce la peculiarità dell'opera, il fondamento della sua credibilità, nelle realizzazioni di Katharina Fritsch tende a tramutarsi in un vuoto destabilizzante. Per questa ragione l'impressione più immediata e ricorrente sembra essere di "perfezione".
Utile alla comprensione del suo fare artistico l'analisi dell'opera Rattenkonig (Il re dei ratti) (1993-94).
Tale scultura domina decisamente lo spazio, ed è il prodotto di un' esperienza dell'artista tanto repellente quanto affascinante. Infatti parrebbe che Katharina Fritsch si sia trovata di fronte a una tana di ratti mentre usciva, in pieno inverno nel 1993, dalla porta sul retro di un Istituto d'Arte di New York. Da questo incontro/scontro sarebbe nata l'idea di relizzare un cerchio di ratti in scultura, geometricamente legati, quasi a creare una corona. Tale immagine evoca o può evocare dalle resse demoniache ad associazioni con storie e leggende narranti grovigli circolari di code annodate; mentre i materiali dei quali sono composti, come le loro dimensioni (2,80 m.), installazioni simili a simulazioni di computer design.
Da simili indicazioni si può dedurre che Katharina Fritsch desideri presentare al fruitore, attraverso l'uso di una scala dimensionale suggestiva e colore appropriato, oggetti e temi in un isolamento estremo, che li privi di ogni aspetto e cartteristica casuale, verso la rivelazione della loro intima "essenza".
Bibliografia essenziale:
Katharina Fritsch, San Francisco: San Francisco Museum of Modern Art, 1996;
Katharina Fritsch, Wolfsburg: Stadische Galerie Wolfsburg, 1999;
Katharina Fritsch, New York: Matthew Marks Gallery, 2000;
Blazwick, Iwona, Katharina Fritsch. London: Tate, 2002

domenica 6 dicembre 2009